Note di biodiversità pleistocenica
- mattiacefis87
- 19 gen 2022
- Tempo di lettura: 4 min

L'analisi del corredo di Ötzi, così come del polline presente all'interno del suo intestino, ci racconta molto dell'ambiente alpino di oltre cinque millenni fa. Tuttavia, la documentazione fossile, unita a tracce di polvere e di macroresti vegetali (conservati in grotta, in depositi lacustri e torbiere) permette di spingerci molto più lontano, nel tempo. E' importante farlo, perchè è stato l'ambiente a determinare la presenza umana, nei nostri luoghi, e a stabilirne le modalità di insediamento. Come un’immensa fisarmonica, le oscillazioni climatiche hanno esercitato una drastica influenza su ambienti e organismi, soprattutto sulle Alpi. Nelle fasi interglaciali il clima tornava a salire e a farsi più umido, avvicinandosi alle temperature attuali; le foreste riguadagnavano terreno, il livello del mare tornava a salire. Regioni un tempo ricoperte dai ghiacci tornavano a popolarsi, dapprima di fauna e subito dopo dei cacciatori umani appresso.

Diffusissimi erano gli ungulati ancora oggi presenti: cervi, cinghiali e caprioli alle pendici delle Alpi e degli Appennini; salendo di quota, subentravano invece stambecchi e camosci. Nelle pianure interne, soprattutto tra gli Appennini meridionali, erano frequenti i daini, i bisonti, i cavalli e gli uri (questi ultimi due son gli animali maggiormente frequenti nel Salento, nelle Murge e nelle distese tra Ionio e Adriatico). I grandi fiumi, le piane costiere e gli acquitrini salmastri erano invece dominati dai giganti: elefanti, rinoceronti ed ippopotami (1). L’uomo comunque non era l’unico predatore di quei luoghi, né la sua posizione al vertice della catena alimentare era così indiscussa: numerosi carnivori erano in competizione alimentare con i gruppi umani: orsi (abbiamo già parlato dell’orso delle caverne, COLLEGAMENTO ARTICOLO), lupi e iene delle caverne, ma soprattutto grandi felini come tigri dai denti a sciabola, pantere, leoni delle caverne (2). Anche loro venivano occasionalmente cacciati, dall’uomo; tuttavia, altre volte era l’uomo a divenire preda (3). Caso noto anche al grande pubblico è quello di Grotta Guattari, dove i resti di diversi individui neandertaliani sono riconducibili a pasti di iene (4). Tali animali, oltre ad essere ottimi cacciatori, erano (e rimangono a tutt’oggi) specializzati al consumo e alla frantumazione di ossa, che accumulavano nelle tane; questo elemento si rivela molto prezioso, ai fini della ricerca, perché ha consentito la conservazione in luoghi protetti di vere e proprie “miniere” di fossili (eventualità molto più improbabile, se tali resti fossero rimasti all’esterno).

Il ciclico ritorno dei ghiacci respingeva gli organismi presenti, uomo compreso, ai margini della catena alpina; ma ne subentravano di nuovi. Gli animali di montagna si spostavano a quote inferiori, così come le fasce vegetazionali. Venivano così a costituirsi spazi aperti, dove gli alberi di alto fusto arrivavano a sparire quasi del tutto, sostituiti da ampie praterie di muschi e licheni e a distese erbacee, creando le condizioni ideali a grandi mandrie di erbivori. L’Italia settentrionale si popolava così di specie che siamo abituati a pensare in relazione alle zone artiche: cavalli, alci, diffuse anche in pianura Padana (dal momento che la loro esistenza è legata all’acqua), bisonti, renne (attestate in Liguria, ai Balzi Rossi), ghiottoni, oltre a specie più iconiche, come megaceri, mammuth e rinoceronti lanosi (5). Questa dispersione faunistica (soprattutto, quella della direttiva N-S) era peraltro facilitata dal fatto che il livello del mare era un centinaio di metri inferiore a quello attuale; ciò faceva sì che tutto l'alto Adriatico era emerso, al punto che il Po sfociava poco a N di Pescara, nella Fossa di Pomo (6). Anche molte isole, come Sardegna e Corsica, erano unite al continente.

“L’arretramento della linea di costa aveva causato l’emersione di gran parte del mar Adriatico a N di Ancona, rendendo più ampio il collegamento tra la pianura Padana e l’Europa orientale. Gli Appennini costituivano poi una barriera che proteggeva la fascia costiera tirrenica dall’influsso dei venti freddi balcanici, che condizionavano maggiormente il clima e gli ambienti della fascia costiera adriatica, dove potevano diffondersi con maggiore facilità i mammiferi ‘freddi’ che, come abbiamo visto, si spinsero fino all’estremo S del Salento” (7). I fenomeni climatici finora esposti hanno determinato in misura enorme l'attuale situazione della biodiversità italiana, vegetale e animale. Ecco perchè, ad esempio l'Abete Bianco (Abies alba) è tanto diffuso in Italia, perchè troviamo boschi di betulle (Betula aetnensis) sull'Etna e perchè, in generale, nelle aree mediterranee si trova una flora tipica dell'area boreale. Si tratta delle cosiddette "foreste relitto": popolazioni sopravvissute dall'Era Glaciale, a dispetto di quanto le condizioni che ne hanno consentito la formazione siano mutate. Nei prossimi articoli vedremo come questi processi influirono sulle abitudini dei gruppi umani alpini, dall'alimentazione alle espressioni artistiche.
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NOTE (i rimandi citati, per quanto puntuali, son da ritenersi soltanto esemplificativi; riferimenti bibliografici più esaustivi si trovano all'interno dei seguenti volumi)
1) Marco Peresani, Come Eravamo; Viaggio nell’Italia Paleolitica, pp. 103-105; Wighart von Koenigswald, Mammalian Faunes from the Interglacial periods in Central Europe and their Stratigraphic Correlation (in The Climate of Past Interglacials, pp. 445-454).
2) Cajus G. Diedrich, Palaeopopulations of Late Pleistocene Top Predators in Europe: Ice Age Spotted Hyenas and Steppe Lions in Battle and Competition about Prey.
3) AA. VV, Large carnivore attacks on hominins during the Pleistocene: a forensic approach with a Neanderthal example (in Archaeological and Anthropological Sciences 8, III, pp. 635-646).
5) Benedetto Sala, Mammalofaune tardoglaciali dell’Italia continentale (in L’Italia tra 15.000 e 10.000 anni fa, Cosmopolitismo e Regionalità nel Tardoglaciale, pp. 21-38). 6) http://www.biologiamarina.eu/Adriatico.html
7) Raffaele Sardella, l’Era Glaciale, pag. 147.
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